06/06/2017 - Documento della Camera Penale di Milano del 6 giugno 2017


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LA FORZA DELLO STATO DI DIRITTO - a proposito del caso Riina

I fatti.

Un detenuto per gravi reati di mafia chiede, in considerazione delle sue gravi condizioni di salute, ritenute incompatibili con il carcere, di poter fruire del differimento della pena, secondo quanto dispongono gli arti. 146 e 147 c.p. nel caso di patologie gravissime. Le norme in questione operano un bilanciamento tra il diritto alla salute e la finalità della pena come connotata dall’art. 27 Cost. e dispongono che, per ragioni umanitarie e a certe condizioni, il condannato per qualsiasi reato possa scontare la pena a casa.

La magistratura di sorveglianza respinge la richiesta e la Corte di Cassazione, nell’accogliere il ricorso della difesa e nel chiedere al tribunale un nuovo esame della situazione medica del condannato, impone che esso debba seguire un ovvio principio di civiltà secondo il quale lo stato di detenzione carceraria non può comportare “una sofferenza ed un'afflizione di tale intensità” da andare oltre la “legittima esecuzione di una pena”.

Massima giurisprudenziale condivisibile ma tutt’altro che rivoluzionaria, in un sistema evoluto in cui la pena non può divenire trattamento contrario al senso di umanità, secondo il dettato costituzionale.

Il condannato in questione, però, si chiama Salvatore Riina.

E, dunque, tutto ciò diviene clamoroso. 

Tutti sono pronti a sostituirsi ai giudici: dai politici di ogni colore ai semplici cittadini, a sindacare se le condizioni mediche, certamente oggetto di complessi accertamenti, autorizzassero o meno la decisione della Suprema Corte. Taluno mette persino in dubbio la fiducia nella giustizia, dimenticando che la giustizia è amministrata proprio dai giudici, che applicano la legge, e non dai cittadini sull’onda di reazioni emotive, né, tanto meno, dalle vittime del reato. E’ la magistratura a valutare se vi siano o meno i presupposti; e poi applica la legge. Legge che vale per tutti, sia per Mario Rossi che per Totò Riina.

Un prestigioso quotidiano ricorda il caso di Bernardo Provenzano, detenuto formalmente presso il carcere di Opera ma sostanzialmente presso l’ospedale San Paolo quando, nell’estate dello scorso anno, morì dopo anni di ricovero ospedaliero sottoposto al regime del 41bis che la magistratura di sorveglianza milanese non ritenne di allentare neppure negli ultimi giorni di vita del boss, ormai in stato quasi neurovegetativo. Peraltro, va detto che sarà la Corte EDU a pronunciarsi sul ricorso per violazione dei principi convenzionali in quel caso. Il parallelo non può però portare a ritenere l’attuale decisione un pericoloso precedente, come fa il giornale in questione, bensì, semmai, un passo in avanti nella civiltà del nostro sistema penitenziario. E in ogni caso nessuno, salvo i giudici del caso concreto, è in grado di valutare se vi siano ora o vi fossero in quella situazione i presupposti per il differimento della pena; presupposti giuridici ben precisi basati su condizioni mediche oggetto di specifico accertamento. Il rispetto delle sentenze spesso invocato a sproposito diventa evidentemente un optional se si parla del boss dei boss.

La pena non può essere vendetta né legge del taglione. Lo stato non può agire come agirebbe la vittima; e proprio per questo la rappresenta e non è consentita la vendetta privata. Questo principio, banale ma centrale, non va mai dimenticato.

Certo, la questione delle vittime è delicata, come lo è in ogni tipo di reato particolarmente odioso. Le vittime si sono costituite parte civile nei processi, ed in essi hanno esercitato le proprie pretese risarcitorie. E’ certamente auspicabile che le vittime di reato abbiano una veste diversa, nell’ambito di forme di giustizia riparativa, sulle quali in tempi recenti molto si riflette. Ma la giustizia riparativa ha tra i propri presupposti fondanti la volontarietà. Certamente sarebbe positiva una qualche forma di ricucitura dello strappo sociale immenso causato dai reati di mafia, che lascia, come è evidente nel caso specifico, ferite aperte e dolorose; ma se tale possibilità non si realizza, ciò non può autorizzare una esecuzione penale al di fuori delle norme. Ed è la legge a regolare le modalità di esecuzione della pena e le regole valgono per tutti. Siamo ormai abituati alla terribile logica del doppio binario, che impone per alcune categorie di reati normative ad hoc, ma per quanto riguarda il principio della dignità umana e della sua salvaguardia rispetto alla malattia non ci possono essere detenuti di serie A e detenuti di serie B. Neppure quando si chiamano Salvatore Riina.

Milano, 6 giugno 2017

Il Consiglio Direttivo